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Oscillazioni del tono dell’umore sono quotidianamente esperite da ognuno nel corso della vita. Si tratta di oscillazioni fisiologiche, sottese da meccanismi neurobiologici, che svolgono una importante funzione adattativa, permettendo di adeguare le proprie reazioni ed i propri comportamenti alle condizioni ambientali.

I disturbi dell’umore differiscono da queste oscillazioni fisiologiche per:

- l’eccessiva intensità della modificazione dell’umore e la non prevedibilità della stessa;

- l’estraneità o la sproporzione rispetto ad una causa ambientale;

- la fissità del tono dell’umore;

- la sensazione di incontrollabilità del vissuto;

- la presenza di sintomi psicomotori, cognitivi e neurovegetativi.

Il concetto di umore non va confuso con quello di temperamento.

Quest’ultimo, presente ed evidente fin dalla nascita, fa riferimento principalmente ai livelli di energia e alla qualità dell’umore abituale. I temperamenti affettivi sono anche indicati come precursori e fattori predisponenti per i disturbi dell’umore.

Infatti l’instabilità temperamentale può rappresentare un ponte tra lo stato di benessere e quello patologico.

I disturbi affettivi sono, secondo le indagini epidemiologiche condotte negli ultimi anni, la patologia psichiatrica più diffusa nella popolazione. Si stima che, nel corso della vita, il 20% della popolazione presenti almeno un episodio affettivo.

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Aspetti generali del disturbo bipolare

Il disturbo bipolare. Professor L. Janiri

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Il disturbo bipolare si colloca al quinto posto in termini di disabilità autoriferita (Andrews et al., 2001) e rappresenta un rilevante problema di sanità pubblica. La prevalenza lifetime del disturbo bipolare nella popolazione generale risulta essere circa del 1-5% (Merikangas et al., 2007) ma, questi dati sembrerebbero sottostimati, in ragione della conversione nel tempo di forme unipolari in bipolari e del mancato riconoscimento di fasi di eccitamento in pazienti diagnosticati come unipolari (Gahemi, 2001).

Ancora 1

Il trauma infantile

AncoraTRAUMA

Attualmente si ritiene che circa il 50% dei pazienti psichiatrici abbia subito maltrattamenti nell’infanzia. Infatti è stata suggerita una possibile associazione tra abusi infantili e condizioni psichiatriche diverse, quali depressione, ansia, abuso di alcol e sostanze, disturbi del comportamento alimentare, disturbi somatoformi, ma l’attenzione dei clinici si è soprattutto concentrata sui disturbi dissociativi e sul disturbo post-traumatico da stress.

Il trauma infantile si differenzia radicalmente da un trauma in età adulta, pertanto il primo deve essere oggetto di studio specifico e distinto dal secondo. Se infatti i meccanismi che caratterizzano la reazione al trauma sono in fin dei conti sovrapponibili durante le diverse età della vita, ciò che distingue nettamente il trauma infantile da quello dell’adulto è l’impatto che il primo ha sullo sviluppo cerebrale del bambino. Il trauma agisce su un cervello in formazione, che è perciò profondamente vulnerabile agli effetti delle circostanze ambientali.

 

Il cervello durante l’infanzia e la prima adolescenza attraversa infatti la fase critica, geneticamente determinata, di iperproduzione delle sinapsi e della loro eliminazione, guidata per l’appunto dalle caratteristiche dell’ambiente di crescita. In particolare Schore sottolinea come un trauma infantile possa alterare anche (e soprattutto) lo sviluppo delle funzioni essenziali svolte dall’emisfero destro, che comprendono, la ricezione, l’espressione e la comunicazione di emozioni e le componenti fisiologiche del processamento delle emozioni (Schore, 2009).

Lenore Terr, fra i massimi esperti sul trauma infantile, è celebre per aver sottolineato l’importanza del definire nei bambini il “quantum traumatico”, altro elemento che divide il trauma nei bambini da quello negli adulti. La studiosa statunitense divide le esperienze traumatiche in Tipo I (trauma circoscritto) e Tipo II (dovuto a cronica esposizione a circostanze ostili).

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Per trauma di Tipo I si intendono episodi di solito causati da eventi circoscritti e inaspettati, in questa categoria rientrano la maggior parte dei disturbi da stress post-traumatici. Le conseguenze di un trauma singolo e circoscritto includono: ricordi completi e dettagliati impressi nella mente, rielaborazioni retrospettive, rivalutazioni cognitive, ragionamenti e cambiamenti di opinione e percezioni erronee del tempo. I traumi di Tipo I non sembrano produrre la negazione massiccia, l’intorpidimento o i problemi di personalità che caratterizzano invece i disturbi di Tipo II (Terr, 1991).

I traumi di Tipo II derivano invece da prolungate o ripetute esposizioni a circostanze esterne estreme. Il primo episodio traumatico crea sorpresa e shock alla vittima, ma il succedersi degli altri crea un senso di anticipazione che mobilita una serie di imponenti tentativi di proteggere la mente e di preservare il sé. Le difese e le strategie di coping usate nei disturbi di Tipo II sono diniego massiccio, rimozione, dissociazione e ipnosi autoindotte, identificazioni con l’aggressore e aggressione rivolta verso il sé, spesso producono profondi cambiamenti caratteriali nei bambini.

I traumi complessi generano quindi in chi li subisce alterazioni importanti che si manifestano in modo disomogeneo e pervasivo nelle diverse aree di sviluppo.

 

Questa osservazione rende conto dell’alto tasso di antecedenti traumatici infantili che si riscontra in varie patologie psichiatriche (Read, van Os, Morrison, & Ross, 2005; Romero et al., 2009; Vythilingam et al., 2002).

Ippocampo e Neuropsicologia

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Il trauma infantile è associato con effetti avversi sulle funzioni cognitive, sia in età infantile che in età adulta. Una storia di trauma è associata con un decremento delle performance nell’attenzione, concentrazione e velocità mentale, linguaggio e intelligenza verbale. E’ inoltre possibile che questi deficit cognitivi siano correlati con i cambiamenti strutturali cerebrali spesso osservati in relazione al trauma infantile in determinate strutture come l’ippocampo.

L’ippocampo è noto soprattutto per il suo ruolo chiave nelle funzioni cognitive, in particolare nella memoria (Lupien et al, 2007).

E’ stato spesso proposto che il trauma infantile può interferire o comunque influenzare le funzioni cognitive attraverso l’interazione con il maggiore sistema di risposta allo stress, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Heim et al., 2008; Aas et al.,2011).

 

L’ippocampo assume un ruolo importante nella regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e si potrebbe inoltre supporre che gli effetti del trauma infantile sulle funzioni cognitive potrebbero essere mediati dai cambiamenti in questa struttura cerebrale.

In particolare, il trauma infantile influenzerebbe lo stesso sistema di risposta allo stress, asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il quale influisce sulle funzioni cognitive.

Sembrerebbe che differenze nelle performance cognitive, e la loro relazione con il trauma infantile, tra pazienti e controlli sani mostrerebbero che pazienti con il primo episodio di psicosi avrebbero deficit cognitivi generalizzati quando comparati con i controlli sani, in particolare i pazienti psicotici mostrano scarse prestazioni nella memoria di lavoro, apprendimento e memoria, ed inoltre performance peggiori associate con trauma infantile. (Zanelli et al., 2010;Aas et al., 2011).

La neuropsicologia studia le relazioni fra l’attività mentale e le strutture encefaliche ad essa sottese (Invernizzi, 2006). Storicamente, l’esame neuropsicologico è stato utilizzato quasi esclusivamente in campo neurologico, in particolare con l’obiettivo di studiare i disturbi cognitivi insorti in seguito a lesioni cerebrali. Negli ultimi decenni si è posta una maggiore attenzione nei confronti delle anomalie cognitive presenti in alcune patologie psichiatriche (schizofrenia e disturbi dell’umore soprattutto), in grado di compromettere il funzionamento sia sociale che lavorativo del paziente.

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Nell’ambito della valutazione neuropsicologica vengono utilizzate tecniche standardizzate che forniscono risultati quantitativi comparabili tra soggetti con età e caratteristiche demografiche simili tra loro.

L’oggetto dello studio neuropsicologico è la valutazione e l’analisi delle funzioni cognitive. Queste sono lo strumento tramite il quale l’uomo interpreta e gestisce correttamente le informazioni così da formare e mantenere legami con il contesto sociale. Le principali funzioni cognitive sono le seguenti:

  • orientamento, inteso come la capacità di esprimere le proprie coordinate relative al tempo, allo spazio ed alla propria identità;

  • la percezione, processo attivo di integrazione ed interpretazione degli stimoli sensoriali;

  • l’attenzione, capacità di assegnare, distribuire e mantenere le risorse cognitive in funzione del compito da svolgere;

  • la memoria, attraverso la quale si fanno proprie esperienze e nozioni e si richiamano al momento opportuno;

  • il linguaggio, inteso come la capacità di manipolare stimoli linguistici;

  • le abilità costruttive, necessarie per pianificare e realizzare prodotti dotati di rapporti spaziali complessi;

  • il ragionamento, insieme delle operazioni mentali che mettono in relazione più unità elementari;

  • le funzioni esecutive, che rappresentano un’abilità di livello gerarchico più elevato e regolano i processi di pianificazione, controllo e coordinazione;

  • l’intelligenza generale, risultato dell’utilizzo efficace delle diverse funzioni cognitive specializzate.

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IO, ME e gli ALTER: Disturbo dissociativo dell'identità

Ancoradistdissociativo

Autumn Asphodel è una trans-gender che da qualche anno ormai posta video su youtube in cui racconta la sua storia. Chiaramente, nei suoi video, si possono vedere i momenti in cui Autumn 'passa' da un alter all'altro, cambiando modo di parlare, gestualità e modo di vestire. 

Il disturbo dissociativo dell'identità (DDI o DID), o secondo la definizione dell'ICD-10 disturbo di personalità multipla, è un disturbo mentale definito nel 1994 da una serie di criteri diagnostici come un particolare tipo didisturbo dissociativo nel DSM.

Il disturbo dissociativo dell’identità si caratterizza per la presenza di due o più identità o stati di personalità distinti (ciascuno con i suoi modi di percepire, relazionarsi, e pensare nei confronti di se stesso e dell’ambiente).

Almeno due di queste identità o stati di personalità assumono in modo ricorrente il controllo del comportamento della persona e ognuna di esse, quando presente, non ha assolutamente coscienza dell’altra.

Sintomo caratterizzante il disturbo dissociativo dell’identità è l’amnesia dissociativa, che si riferisce all’incapacità di ricordare importanti informazioni personali, e/o eventi traumatici, non riconducibile per estensione ad una banale tendenza alla dimenticanza.

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altri settori importanti del funzionamento e possono essere rilevati dall’individuo stesso o osservati da altre persone (APA, 2013).

L’alterazione non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. black-out o comportamenti caotici in corso di intossicazione alcoolica) o ad una condizione medica generale (per es. epilessia).(Meganck R. Beyond the Impasse – Reflections on Dissociative Identity Disorder from a Freudian–Lacanian Perspective. Frontiers in Psychology. 2017;8:789. doi:10.3389/fpsyg.2017.00789.)

Il disturbo dissociativo dell’identità è grave e cronico e può condurre a disabilità e invalidità. È spesso associato a depressione e disturbo borderline di personalità e presenta un’elevata incidenza di tentativi di suicidio.

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I pazienti spesso presentano le seguenti manifestazioni sintomatologiche: sintomi di depressione, manifestazioni d’ansia (sudorazione, tachicardia, palpitazioni), fobie, attacchi di panico, sintomi fisici, disfunzioni sessuali, disturbi del comportamento alimentare e disturbi post-traumatici da stress. Sono frequenti pensieri e tentativi di suicidio, così come episodi di automutilazione. Molti soggetti hanno fatto abuso di sostanze psicoattive per un certo periodo di tempo.

In ambito clinico predominano casi di donne con disturbo dissociativo dell’identità: gli uomini possono negare i loro sintomi e le storie di traumi, e questo può portare a tassi elevati di falsa diagnosi negativa. Le donne con disturbo dissociativo dell’identità presentano più frequentemente acuti stati dissociativi (flashback, amnesia, fuga, sintomi da conversione, allucinazioni, automutilazione); gli uomini presentano più comunemente comportamenti criminali o violenti.

(Elena: A case of dissociative identity disorder from the 1920s.

Schimmenti A.)

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I modelli dominanti in letteratura considerano che alla base del disturbo dissociativo dell'identità vi sia una pregressa storia di trauma che causerebbe la creazione da parte dell'individuo di altre identità, definite alter. Si crede che lavorare direttamente con gli alter possa essere il lavoro centrale del trattamento terapeutico.

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La dislessia insieme alla disortografia, disgrafia e discalculia fa parte di quel gruppo di disturbi chiamati DSA (Disturbi Specifici dell'Apprendimento).

La dislessia viene considerata come la difficoltà nella decodifica di un testo.

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La disortografia è un deficit della competenza ortografica e fonografica.

La disgrafia invece si manifesta come una difficoltà nell'abilità motoria della scrittura.

Infine la discalculia corrisponde alla difficoltà di compiere calcoli aritmetici.

DISLESSIA

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CAUSE

 

Teoria fonologica:

 

La teoria più conosciuta sulla dislessia evolutiva è la teoria del deficit fonologico. La teoria fonologica della dislessia implica un deficit sia del recupero che della memorizzazione dei suoni di un discorso. Un pre-requisito necessario per imparare a leggere è l’acquisizione delle corrispondenze grafema-fonema del sistema alfabetico. In altre parole, un bambino deve scoprire la connessione tra lettere e suoni costitutivi del parlato. Le teorie spiegano la dislessia sostenendo il fatto che, se i suoni del parlato hanno rappresentazione, immagazzinamento e recupero deboli, questo porterebbe come risultato ad una comprensione insufficiente delle corrispondenze grafema-fonema della lingua. I sostenitori della teoria del deficit fonologico credono che la fonologia abbia un ruolo centrale e causale nella dislessia, suggerendo un legame diretto tra deficit cognitivo e problema comportamentale.

 

Teoria visiva:

 

Una teoria visiva per la dislessia sembra un presupposto logico quando viene presa in considerazione il fatto che la dislessia è strettamente associata all'elaborazione di lettere e parole sulla pagina stampata. La dislessia è stata considerata il risultato di una fissazione binoculare instabile e di problemi di divergenza. I difetti visivi e oculari potrebbero compromettere il controllo dell'occhio, l'attenzione visiva e il movimento degli occhi per la ricerca visiva. La dislessia è attualmente considerata un'anomalia dell' elaborazione linguistica caratterizzata da disturbi fonologici di abilità. L'ipotesi di un' origine visiva per la dislessia non è favorita e questa ipotesi perde ancor più consensi a causa di recenti studi sull'immagine del cervello che dimostrano una diminuzione dell'attività di regioni funzionali del cervello nei dislessici.

Questi disturbi dipendono dalla funzionalità delle diverse reti neurali coinvolte nei processi di lettura, scrittura e calcolo.


 

Per quanto riguarda la dislessia la Biblioteca Nazionale Americana di Medicina offre la seguente definizione: la dislessia, si verifica quando vi è un deficit nelle aree del cervello coinvolte nel linguaggio. Non è causato da problemi di visione. Il disturbo è un problema specifico di elaborazione delle informazioni. Non interferisce con la capacità di pensare o di comprendere idee complesse. La maggior parte delle persone con dislessia ha un'intelligenza normale. Molti hanno un'intelligenza superiori. La dislessia può essere spesso accompagnata dalla discalculia e disgrafia.

Le disabilità di lettura possono avere un impatto negativo sui risultati accademici di un individuo, sulla propria immagine, sull'adattamento sociale e sugli atteggiamenti sociali nei confronti dei bambini affetti. L'identificazione e la diagnosi tempestiva delle disabilità di lettura è importante per guidare l'intervento e per evitare ripercussioni personali, accademiche e sociali. Quindi, l'individuazione precoce della dislessia e altre difficoltà di lettura analoghe è indispensabile per fornire l'aiuto necessario ai lettori dislessici.

L'identificazione degli studenti con dislessia non è di solito fatta fino al grado 3 della scuola elementare, quando la capacità di lettura è in ritardo rispetto a quanto previsto per l'età e inizia a ostacolare il progresso educativo complessivo. Infatti l'identificazione viene spesso fatta molto più tardi, o peggio ancora: "un numero significativo di studenti con dislessia non è diagnosticato e i loro sintomi non sono trattati, con risultati tragici".

DOMANDE FREQUENTI DEI GENITORI:

 

Dal sito AID ( https://www.aiditalia.org/it/faq-genitori-dislessia )

 

Cosa sono i Disturbi Specifici d'Apprendimento?
Sono disturbi (non una malattia) che riguardano la capacità di leggere e scrivere in modo rapido e corretto. Normalmente queste attività avvengono automaticamente, mentre per un bambino con DSA comportano un’enorme fatica e risultati carenti. In Italia questi disturbi toccano il 3-4% della popolazione. Per un approfondimento vedi la voce 

Ho il sospetto che mio figlio possa essere dislessico. Cosa posso fare?
Se si hanno dubbi che un bambino/ragazzo abbia difficoltà d'apprendimento è necessario richiedere una valutazione specialistica. La diagnosi deve essere fatta da specialisti esperti mediate specifici test. Per tale valutazione ci si può rivolgere alla propria ASL di appartenenza (Servizio di Neuropsichiatria Infantile o Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile o di Neuropsicologia), oppure a specialisti che svolgono privatamente la libera professione. In tal caso vi consigliamo di contattare la sede dell'Associazione Italiana Dislessia più vicina per conoscere la normativa regionale e sapere quali sono i centri privati autorizzati.

Il logopedista può fare una diagnosi?
La valutazione e la stesura della diagnosi sono di stretta pertinenza specialistica.
Insegnanti, operatori, tecnici della riabilitazione (logopedisti e psicomotricisti), ecc. possono somministrare solo alcuni dei test necessari per una corretta valutazione diagnostica (ad esempio le "Prove MT"). Queste prove non hanno alcun modo valore diagnostico ma possono essere una prima indicazione per inviare il ragazzo dallo specialista.

A chi bisogna rivolgersi per avere una diagnosi?
Per richiedere una diagnosi di DSA bisogna rivolgersi all’ASL. È anche possibile rivolgersi a un privato (neuropsichiatra e/o psicologo) convenzionato o accreditato dall’ASL in base alla Consensus Conference 2012. Per conoscere gli specialisti presenti sul proprio territorio e attenersi alle leggi e norme regionali vigenti, consigliamo di rivolgersi alla sezione AID più vicina.

Lo devo dire a mio figlio?
Se vostro figlio ha una diagnosi di dislessia avrà bisogno di un aiuto supplementare per sviluppare un metodo di studio efficace, magari attraverso un tecnico dell’apprendimento o un insegnante appositamente formato.
A scuola gli insegnanti dovranno adottare strategie appropriate durante le spiegazioni, le verifiche, e al momento dell'assegnazione dei compiti a casa. È inoltre possibile che lo specialista vi consigli di intraprendere un trattamento di tipo logopedico.
Tutte queste novità dovranno essere spiegate a vostro figlio con cura e dolcezza; utilizzate un linguaggio semplice, chiarendo che le difficoltà che sta vivendo a scuola o nel fare i compiti riguardano solo alcuni ambiti specifici e che sarà possibile trovare un modo diverso di apprendere, più adatto a lui.
Non preoccupatelo e non preoccupatevi: vi state già adoperando assieme agli insegnanti, al terapista e a vostro figlio per affrontare al meglio la situazione. Spiegate al ragazzo che è molto importante conoscere se stessi. Capendo dove fa più fatica nello studio, sarà più semplice aiutarlo con strumenti che sappiano valorizzare ed esprimere al meglio il suo potenziale.

Quali interventi riabilitativi o trattamenti sono indicati?
Sarà lo specialista a identificare il trattamento più efficace, che dovrà tenere conto delle caratteristiche e manifestazioni del distrubo oltre che delle abilità integre, i cosiddetti punti di forza del bambino. Ogni trattamento, infatti, deve essere personalizzato.
I trattamenti riabilitativi non sono comunque indicati nel bambino più grande.

Mio figlio ha meno di 7 anni, può essere dislessico?
La dislessia può essere diagnosticata a partire dalla fine della seconda elementare (a causa della grande variabilità osservabile nell'apprendimento della letto-scrittura), mentre la diagnosi certa di discalculia può essere fatta solo alla fine della terza. Tuttavia, in caso di dubbio, non è da escludere la possibilità di effettuare una valutazione specialistica, soprattutto se in presenza di altri indicatori diagnostici (come un pregresso ritardo e/o disturbo del linguaggio o persone con DSA nel nucleo familiare).

Mio figlio ha solo sei anni ma ha qualche difficoltà di lettura e scrittura. Lo devo far visitare?
Se avete un sospetto è meglio togliersi ogni dubbio: prima si interviene e migliore è la prognosi. Anche se la diagnosi definitiva può essere fatta solo a 8 anni, dai test il bambino potrebbe risultare “a rischio”. In questo caso si potrà intervenire subito con la logopedia e/o con altri interventi di recupero che aiuteranno a migliorare rispetto alle difficoltà riscontrate.

Si può fare una valutazione/diagnosi negli adulti?
Gli adulti possono essere sottoposti a delle valutazioni clinico-diagnostiche, con test specifici diversi da quelli utilizzati per i bambini. Le sedi in cui è possibile fare valutazioni agli adulti sono ancora poco numerose.

Esistono trattamenti per i dislessici adulti?
Per gli adulti non è indicato un trattamento riabilitativo. Possono però utilizzare strategie e strumenti abilitativi (soprattutto informatici) in grado di agevolare le attività di studio e lavoro.

Ancora dislessia

BIBLIOGRAFIA

 

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3.Shaywitz BA, Lyon GR, Shaywitz SE. The role of functional magnetic resonance imaging in understanding reading and dyslexia. Dev Neuropsychol. 2006;30:613-632.

 

4.Lyon GR, Shaywitz S, Shaywitz B (2003). A definition of dyslexia. Annals of Dyslexia 53: 1–14.

 

5. Dal sito AID ( https://www.aiditalia.org/it/faq-genitori-dislessia )

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